La Calabria di Santo Gioffrè

Il medico scrittore calabrese Santo Gioffrè nella sua campagna di seminara

“Non ho mai visto ridere mio padre”

Pino Nano

Ho amato immensamente Ernest Hemingway. Il più grande narratore del ‘900 possedeva non solo il dono della conoscenza dei fenomeni umani, ma nello scrivere quei capolavori immortali non si è mai lasciato travolgere dai roboanti artifizi di tecnica di scrittura e trucchi che ora si usano per dar forza e generare appetiti  in opere dalla grandiosa apparenza ma di scarsissima qualità letteraria e comunicativa. Hemingway in “Per chi suona la Campana, Fiesta, Addio alle Armi, il Vecchio e il mare, I 49 racconti…” cerca e racconta il senso della vita e dei valori fondamentali dell’uomo con una semplicità e potenza narrativa che fa cantare ogni corda della coscienza e conoscenza umana. La perfetta grammatica, l’uso descrittivo disarmante di ciò che ogni uomo prova difronte alla difficoltà di ogni vita: amori, tensioni e formazione politica, la solitudine di ogni coscienza viva. Io, che sulle sue opere mi sono formato, esempio della mia scrittura, lo amo pazzamente, insieme agli scritti di Omero, le cui opere immortali, da me lette in greco classico su testi di Leonzio Pilato, hanno inciso il mio non credo religioso perché nel mistero del Mito, l’uomo trova la sua complessità e dimensione”.

Nelle silenziosissime campagne solitarie di Seminara, prima. Nella sua casa dove oggi vive, nel cuore di Palmi, subito dopo. L’invito che ricevo da Santo Gioffrè ai piedi degli ulivi secolari della Piana diventano per me un meraviglioso viaggio nel tempo, alla ricerca di una memoria sparita, e di una testimonianza autentica e fedelissima della storia e della tradizione contadina di un popolo.

Un incontro più bello di questo non capitava da tempo.

Sapevo che l’uomo non è dei più facili da raccontare, ma non immaginavo di trovare nella sua campagna di Seminara un uomo che conosce lo stato di salute delle piante dal colore della corteccia, o che è in grado di stabilire lo stato di maturazione delle olive dal sibilo che produce il vento che si insinua tra i rami delle piante, quasi uno sciamano dei tempi moderni, metà indovino e metà scienziato, un uomo di un fascino oltre confine, nonostante il suo carattere abbia conservato nei fatti e fino in fondo la rudezza della sua terra. Nonostante il suo dialetto marcato, e nonostante questa sua “Calabritudine” così palese, evidente, a tratti sfacciata, quasi arrogante e superba.

Questa è la prima sensazione che ricevo da Santo Gioffrè, scrittore, ma prima ancora medico, e prima ancora contadino, e soprattutto figlio e testimone fiero della miseria di Seminara, paese- non lo nega- falciato da ani di violenze e di pessima reputazione, ma dove lui nel frattempo è cresciuto ed è diventato un protagonista assoluto di questa realtà rurale così lontana dal resto del mondo.

L’altro mio amore è stato Jean Paul Sartre e il suo “L’essere e il Nulla”. Tra gli Scrittori Calabresi, come non amare Saverio Montalto? Il suo vero nome era Francesco Barillaro, autentico figlio sventurato di questa terra, la cui “gridata”, o pazzia, altro non è che il canto doloroso della dura realtà e complessità delle vicende umane in terre abbandonate da Dio e dagli uomini. Montalto, scrivendo, per difendersi da accuse di omicidio, “La Famiglia Montalbano”, fu il primo che ruppe le mura del ferreo tempio dove si consumavano i riti, e le complicità, del nascente fenomeno ‘ndranghetistico in Italia Meridionale. La lucidità e il suo coraggio, per nulla apprezzato o ricordato dai canali ufficiali, lo ha reso il mio più amato punto di riferimento. E non sono il solo…Leonardo Sciascia, questo mostro perfetto della letteratura europea, mai staccatosi dalla sua Sicilia, chiaramente a lui s’ispirò nel suo romanzo più celebre, “Il giorno della civetta”.

Lo confesso, non avrei immaginato di trovare nella sua casa di Palmi, dove oggi Santo Gioffrè vive assalito ogni giorno da tre meravigliosi nipotini, un mondo così incredibile, così assolutamente multicolore, un mondo che dire variopinto è dire poco, un mondo a tratti ordinatissimo, ma a tratti anche schizofrenico e disordinato.

26 Maggio 2024 Calabria Live gli dedica la copertina dell’inserto della domenica

La sua è una casa-tempio, piena di icone bellissime, sono i ricordi vivi di tanti anni in giro per il mondo orientale, nessuno meglio di lui conosce i più antichi monasteri ortodossi del mondo, ma soprattutto una casa-museo, con questa grande biblioteca alle spalle, e lui al centro di questo “piccolo mondo antico” che odora e profuma della sua Seminara, odori e profumi che sono rimasti nella sua vita scolpiti per sempre.

Di ogni libro custodito Santo Gioffrè in casa conosce vita e miracoli, di ogni autore ha una sceda personale, scritta rigorosamente a mano, a penna, in corsivo, come si dice oggi, perché frutto di una sua lunga ed ossessiva ricerca personale. Divoratore di letture le più disparate, ma anche archivista di sé stesso e dei suoi tesori. Cercate un brano particolare di uno scrittore calabrese? Avete voglia di conoscere i dettagli della vita dei grandi letterati calabresi? Santo ha una risposta per tutto e per tutti.

L’uomo vive oggi sommerso da volumi, libri, romanzi, saggi di ogni genere, manuali di politica e di religione insieme, montagne di giornali d’epoca, è come se il mondo qui si fosse fermato agli anni in cui Aldo Moro predicava la riconciliazione programmatica con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer, e quando Papa Giovanni Paolo Secondo andava e veniva da Cracovia per cristallizzare con la sua presenza fisica ai piedi del grande tempio della Madonna di Czestochowa la supremazia libertaria di Solidarnosc. Dio mio, quanti saggi di politica. Guai a chiedergli se li ha mai letti. Non solo li ha letti una prima volta, ma nel tempo li ha riletti anche una seconda volta, e questo spiega il perché l’uomo sia oggi cosi impastato e imbevuto di ideologia e di passione civile.

Mi racconta i suoi anni universitari a Messina come se fosse appena ieri, e mi parla di un mondo che io conoscevo assai bene, perché in quegli anni era stato anche il mio mondo, soprattutto la mensa e le camere della Casa dello Studente, eravamo a ridosso del famoso Bar Select, proprio di fronte alla struttura centrale dell’Università, dove lui era già allora uno dei “leaders” calabresi, e dove io sapevo che quel ragazzo discolo e con i capelli lunghi e ribelli veniva da Seminara. Anni di sogni condivisi, ognuno aveva naturalmente i suoi, ma anche anni di tensione, di confusione, di solitudine, e di tentazioni le più disparate.

Il medico-scrittore Santo Gioffrè nel suo ambulatorio medico

Allora, bastava un nulla per perdersi per strada e finire avvolti nell’abbraccio mortale di cattive compagnie. E mi parla delle sue prime “voglie di politica”, una passione che per lui diventa una scelta di vita, un modo per riscattare sé stesso e la propria infanzia, ma anche la storia della sua infanzia e della sua comunità. Un modo, insomma, per dimostrare a chi già allora predicava il fallimento della democrazia che la vera panacea dei grandi mali del secolo stava nella riscoperta del comunismo. Non inteso in senso totalitari, o come poi lo è stato nei fatti nei Paesi dove era attecchito profondamente bene, ma del comunismo inteso in senso religiosamente cristiano ed evangelico.

Non mi sarei meravigliato se un giorno avessi trovato il suo nome tra i tanti giovani terroristi di quegli anni, tanto viscerale ed evidente fosse il senso della vis politica che lui aveva in corpo.

Comunista da sempre. Comunista per sempre. Comunista finché avrà vita. Il personaggio è così coriaceo da non poter cambiare ora che ha appena spento le sue prime 70 candeline.

Uomo di una cultura profonda, eclettico, volitivo, paradossalmente internazionale, appassionato di viaggi continui in giro per il mondo, e soprattutto amico personale, intimo, del Metropolita Ortodosso di Aleppo, Paul Yazigi, personaggio di grande carisma e di grande peso politico,  testimone di rilievo dell’Oriente cristiano e del mondo arabo, aperto al dialogo ecumenico e interreligioso, che venne a conoscerlo personalmente a Seminara quando in Oriente si sparse la voce che in un lontanissimo “Paese della Calabria”, un medico aveva costruito, dopo 800 anni, una Chiesa Ortodossa.

E per dimostrargli la sua riconoscenza, e quella del suo popolo il Metropolita di Aleppo lo invitò in Siria, facendogli poi conoscere tutti i Santuari che conservavano le memorie vive del Cristo. Parliamo di luoghi sacri, celeberrimi, come Maalula, ma lo portò personalmente a conoscere, a Palmyra, il grande Archeologo e scrittore Khaled Al Asaad, direttore del museo e del sito archeologico della città di Palmira, carica che mantenne per più di quarant’anni, sino al momento della pensione, e indicato come uno dei più importanti pionieri nel campo dell’archeologia in Siria del ventesimo secol, diventandone alla fine suo grande amico personale. Santo Gioffrè oggi ricorda quei giorni e quegli anni e si commuove, perché non tutti lo sanno, ma sia Paul Yazigi che Khaled Al Asaad sono diventati dei martiri, il loro popolo li considera tale, perché uccisi dall’Isi rispettivamente il primo nel 2013, il secondo nel 2015.

A guardarlo a prima vista e da lontano, mai elegante, mai con la cravatta al suo posto, mai con le scarpe perfettamente lucide, eternamente barricadero, almeno nel portamento, tutto immagini tranne che l’uomo abbia frequentazioni continue e stabili in giro per il mondo, con intellettuali come lui, il più delle volte molto più famosi di lui, con accademici e studiosi di storia antica, ma anche con alti prelati e rappresentanti delle altre Chiese d’Oriente. Monaco tra monaci, pellegrino tra pellegrini, viandante dei tempi moderni tra viandanti di terre lontane e oggi inaccessibili.

Ma alla fine il destino gli riserva un mestiere affascinante, quello del medico, oggi medico-scrittore, mestiere nobilissimo, che lui ha fatto nella maniera forse più ossessiva e più coinvolgente di quanto non avesse fatto invece con la passione politica.

È una vera storia d’amore questa di Santo e la professione del medico, che lui però tiene segreta fino all’ultimo. Poi, una mattina, il giorno in cui va in pensione per limiti di età, e gli notificano che deve lasciare il suo ambulatorio per sempre, allora si siede al suo PC e racconta di questa sua “maledetta passione” per gli altri, di questa sua voglia di dover curare i poveri prima degli altri, di questo suo incontro quotidiano con il dolore degli altri, e lo fa in maniera quasi poetica, direi quasi superba, assolutamente esaltante.

“Il mio tempo di medico-ginecologo che ha sempre lavorato nella struttura pubblica è terminato. L’unico dispiacere che provo è il dover abbandonare un mondo dolente, in gran parte fatto di estrema povertà, miseria, emarginazione. Ho assistito, in questi 38 anni di lavoro in un’area periferica, al declino di un popolo e delle sue certezze. Da una sanità completa e al servizio della gente, ad un grande vuoto, dove si scimmiotta l’Ars Medica. Vedo, ormai, l’abisso di classe. Il privato ha surclassato il pubblico e nel pubblico arriva solo chi è in uno stato economico di miseria: la gran maggioranza ricevendo la miseria in servizi”.

Santo Gioffrè alla presentazione nazionae del suo ultimo libro “Evasioni d’amore”

Rieccolo il Santo di allora, il giovane rivoluzionario che nulla temeva e che l’unico credo che aveva era la difesa della classe operaia, quasi una religione di vita per lui, il culto per la difesa degli interessi degli ultimi, che nella sua vita entrano da ultimi e ne escono sazi e felici di essere finalmente trattati da uomini liberi.

Pensa che dal 2011, data in cui la Provincia di Reggio Calabria, con me Assessore, regalò un ecografo all’Asp di Reggio destinato, poi, all’ambulatorio di ginecologia di Palmi, ho effettuato 17.546 esami ecografici, favorendo l’accesso a tutti”.

-A tutti cosa vuol dire?

“A tutti, più chiaro di così? Persino a chi ne aveva necessità pur non esistendo. Dalla casistica che ho, ho diagnosticato patologie precancerose, salvando tante vite e, purtroppo, casi di tumore che arrivavano, per difficoltà di accesso ai servizi di prevenzione, in fase avanzata”.

-La cosa di cui va più fiero dottore

“Io ho rotto tutti i monopoli. Ho visto miserie di chi è legato solo al soldo, tanto da manipolare il servizio pubblico per fini privati. Nei 38 anni in cui ho fatto il medico ho lottato per come ho potuto dentro una città che non ha mai amato il proprio ospedale. Da Commissario dell’Asp di Reggio Calabria, ho attaccato il placido mondo normale della sopraffazione e del malaffare e ho fatto tremare i perenni ladri, e chi li proteggeva. Sono stato inviso al potere, quello vero, e che non sopporta che qualcuno lo guardi in faccia. Io oggi mi vanto di averli guardati e gli ho sputato in volto il mio disprezzo di Militante Politico Sovversivo”.

-Alla fine chi ha vinto? O meglio, lei cosa ha perso in questa battaglia contro i poteri forti?

“Loro, con i loro confidenti, gregari e procacciatori d’affari, mi hanno distrutto, trascinandomi nella polvere e in aule di tribunale solo perché non ho taciuto quando volevano che lo facessi. L’ultimo sfregio, dopo che per un anno e mezzo mi hanno pregato in ginocchio di reggere il Servizio dei Consultori familiari perché ero l’unico ad avere titoli ed esperienza confacente, al concorso per soli titoli, sono arrivato ultimo, pur avendo titoli simil-universitari: Sol perché, guarda caso, mi ero dimenticato, non vedendoli tra le cose richieste, di presentare le mie pubblicazioni scientifiche: una quarantina. Non erano bastati gli anni di servizio nei vari consultori. O aver diretto il servizio stesso dei Consultori, i master presi all’università di Pisa e non nelle retrobotteghe e l’essere stato Commissario dell’Asp. Ma è giusto che le dimenticanze postume e sconosciute si paghino. Io, però, mi sono rialzato lo stesso e gli ho risputato in faccia”.

-Dottore perché così tanta tristezza nelle cose che scrive lasciando il suo lavoro?

“Perché ora ho finito davvero! Mi dispiace, solo, di lasciare chi veramente ha bisogno, e che non saprà come fare, se non pagare. No, non sono un uomo pio, dalla benevolenza facile e dal cuore bucato. No, non ho mai chinato il capo a nessuno. Ma noi, come disse Cienfuegos, siamo stati altro. E altro, se mio Padre non mi avesse insegnato a guardare in faccia, prima, gli Uomini in Comunità, avrei potuto fare”.

“Mio Padre”, Santo non fa che ripetermi questa frase. “Mio Padre”, perché tutta la sua vita ruota attorno al ricordo del Padre, padre scritto con la A maiuscola mi prega di fare, Padre come icona della sua vita, padre come esempio di straordinarie virtù, Padre come punto di riferimento di una famiglia che a Seminara non c’è più.

Questo è il grande scrittore che oggi mi riceve nella sua casa di Palmi, dove sua figlia, figlia unica per giunta, gli ha già trovato come passare gli anni del tramonto, alle prese questa volta con una bimba bellissima, la prima nata, e gli ultimi due fratellini gemelli, fratello e sorella, arrivati solo da qualche mese. “Una grazia del Signore”, mi dice sorridendo, ma la sola idea che un uomo come lui mi dica “Una grazia del Signore” mi manda ancora una volta in crisi.

Due giorni fa, venerdì scorso, Santo Gioffrè presenta a Napoli il suo ultimo libro, il titolo è semplicissimo, “Evasioni d’amore”, edito dalla Castelvecchi Editrice, ed è soprattutto un inno a suo Padre.

Non poteva raccontarlo meglio Santo Gioffrè suo padre, un vero e proprio monumento esistenziale, una figura che nel libro acquista un ruolo centrale, e che ora potrebbe fare di questo libro un vero e proprio best seller dell’anno.

“…Stava, negli ultimi tempi della sua vita, sempre seduto davanti ad una grande finestra su una vecchia e consumata poltrona, pensoso. Di fronte, le alte montagne che alla sua debole vista si allargavano allo sguardo di un grandioso anfiteatro fatto di sterpaglie e consegnavano un senso tragico di abbandono dopo che le ultime ondate emigratorie avevano spogliato le campagne come fa la serpe con le sue squame inutili.…Così ricordo mio padre nel tempo in cui la sua vita si spegneva e il pugno chiuso e contratto della sua mano sinistra, forse soggiaceva all’ictus che lo stava consumando, forse era il risultato della sua malinconia”.

Più che un romanzo questo suo nuovo libro sembra quasi un diario segreto, che lo scrittore di Seminara scrive forse per esorcizzare il suo passato, ma che è pieno di suggestioni così intime da commuovere chi lo legge. A me ha fatto questo effetto. Ma in queste pagine ci sono dei passaggi di questo suo racconto cosi personale che fanno di suo padre un vero e proprio manifesto del dolore e dell’amore per la donna amata, la madre di Santo.

Non ho mai visto ridere mio padre! …Era nato in un bosco fatto di vigne e di uliveti giganti la cui maestosità delle fronde ricordava che il ricchissimo latifondista, nell’imporne la massima cura, li amava più degli uomini dai respiri pesanti, a cui concedeva di abitare nei suoi casalini e a lui dovevano vita perché dispensava lavoro e, quindi, pane. Quel bosco fu la dimensione reale della sua infanzia, così come il belare delle capre e il vocìo delle donne, la sera, intente a intingere acqua per la vita dall’unica fonte che scaturiva dalla parete tufacea della grande valle e che tratteneva lì, in alto sulla collina, un vetusto paese che nulla più aveva delle glorie del tempo passato”.

Ritorna prepotente la saga dei Gioffrè, che è la storia di una famiglia come tante altre, alle prese con la miseria dei primi del secolo in una radura che sembra condannata dal destino a morire per sempre. Sono le campagne di Seminara, un’isola di solitudine e di violenza, di miseria e di squallore generale, che per la prima volta viene raccontata da un grande romanziere come Santo Gioffrè, e che ancora oggi, a 70 anni già fatti, la considera, nonostante tutto, la “mia meravigliosa Itaca”.

“…In quel posto, un giorno d’estate, sotto un sole furioso che tutto incendiava, nel tentativo di arginare il dilagare del fuoco nelle terre del padrone, suo padre venne aggredito dal fumo che lo intossicò. Morì con la zappa in mano tra le zolle appena rimosse per dar respiro alle vigne attorniato dai suoi sei figli senza riuscire a dire di avergli voluto sempre bene”.

Un romanzo, questo della Castelvecchi, che merita a pieno titolo di essere celebrato da uno dei grandi Premi Letterari Nazionali ancora aperti, e che racconta con i toni dolcissimi di un diario personale la storia di un amore struggente, quello tra il padre di Santo e sua madre, e questo in un periodo in cui nessuno avrebbe mai osato pensare le cose che Santo Gioffrè invece scrive con una lucidità ed un trasporto quasi maniacale.

“…Si baciarono, no non è vero, nel bacio si fusero, i corpi persero le dimensioni anatomiche diventando qualcosa di irreale, di fantastico, era un sogno della ragione e dei sensi, era la sublimazione della materia.

Lì, dove tutto era sacro e tutto era profano, vollero sottrarsi ad ogni legge che non prevedesse il dominio del richiamo dei corpi, il fondersi giulivo delle pupille, il mescolarsi delle bocche e dei fluidi”.

Sembra quasi la sceneggiatura di un film, che ha come protagonista un uomo che parte in guerra, che lascia a casa la sua donna amata, e che pur di stare con lei e di riaverla tra le braccia arriva a farsi del male, male fisico, oltre ogni possibile immaginazione. E qui lo scrittore supera sé stesso.

“…Mio padre sapeva che la procedura era stata già usata. Non sapeva, però, quanto doloroso sarebbe stato l’esito che lo rese storpio per tutta la vita. Nel febbraio del 1943, di mattina, s’iniettò, conficcandosi profondamente un ago nel tallone sinistro, tutto il contenuto di una siringa in vetro di acido muriatico…Non gli importò più nulla della guerra. Nulla voleva sapere della Patria. L’unica cosa che voleva era tornare dalla sua Maria. L’acido muriatico è un potentissimo acido caustico che, iniettato in profondità di ogni tessuto biologico, brucia tutto e causa una dolorosissima necrosi delle carni. Il giorno passò tra tremendi dolori sopportati e taciuti. Comparve un rossore nella parte d’iniezione che evolvette in una piaga purulenta e ulcerativa. Solo allora marcò visita, dicendo che, giorni prima, si era punto, accidentalmente con qualcosa”.

E’ il trionfo della tenerezza. E’ la bellezza superlativa dell’amore su tutto il resto. E’ il desiderio inteso come voglia di vita e ricerca della felicità, che è la felicità propria e della donna che si ama, ma che ha come contraltare la verità successiva, amara, violenza, tragica. Lo scrittore racconta infatti che quella ferita procuratasi dal padre al piede con l’uso dell’acido muriatico “brucò” dentro quel corpo già così debole per tutto il resto della sua vita.

“…Ricordo ancora oggi, oggi che il suo corpo da tempo è cenere, quando mi stringeva a sé, quelle sue callosità, pietre appuntite nel tratto in cui il palmo della mano si congiunge alle dita e ancor ne avverto la durezza. Quelle callosità, tuttavia, non gli impedirono mai di condurre per mano, amorevolmente, mia madre negli ultimi anni della sua vita, quando sui suoi occhi era sceso il buio della notte fitta causato dalla maculopatia senile. Quella di mio padre fu una vita molto dura perché la terra garantiva il nutrimento solo se prendeva e consumava l’anima del contadino, fin dalla prima giovinezza”.

Il medico-scrittore questa volta cede il passo alla letteratura più fine, al linguaggio del cuore, alla voglia struggente di rivedere e poter rincontrare suo padre, per dirgli magari quello che in realtà da ragazzo Santo non ha mai avuto il coraggio di confessargli. Ma quelli erano anni e tempi in cui i padri erano quasi sacri, e non avevano quasi mai tempo per essere distratti dai racconti dei figli.

Il romanzo che Santo Gioffrè ci regala di quella stagione in Calabria, soprattutto tra Seminara Palmi e Gioia Tauro, con l’Aspromonte che ti guarda dall’alto e da lontano, è un quadro di ineguagliabile bellezza e suggestione letteraria.

Santo Giofrè e Lucio Dalla

Non ci credete? Allora cercatevi questo libro e poi scrivetemi, magari anche per dirmi che non siete d’accordo con me, ma vi assicuro che non ve ne pentirete.

Dopo agli anni universitari, e una laurea in medicina, che per la gente di Seminara pareva allora un sogno irrealizzabile, ma lo era anche per tutti i ragazzi che erano cresciuti in quelle terre e in quelle contrade, per Santo Gioffrè inizia una missione in camice bianco che segnerà poi tutto il resto della sua vita.

Arrivai a Stromboli quando mi fu assegnata la mia prima sede di guardia medica. Una settimana al mese per 800.000 lire. Si partiva, ma non si sapeva quando si tornava. Ricordo che la guardia medica era situata in una piazza, San Vincenzo mi pare si chiamasse, dove ogni mattina mi affacciavo a guardare Strombolicchio, ed era attaccata ad una chiesa, parte della canonica che il Prete, ormai vecchio, aveva imposto come affitto all’Asp. Questo Prete era sempre vissuto a Stromboli. Reazionario, un giorno, trovandolo in sì, mi raccontò di Rossellini e della Bergman. In sostanza mi disse che, per fare il film, Rossellini dovette trattare con lui che gli fornì la casa mezza decente dove stare con l’attrice, tutte le maestranze locali e la tranquillità. Nel modo in cui me lo diceva, capii che mal aveva sopportato il Regista per via dello scandalo allora sorto con la Bergman, ma il denaro datogli dissipò ogni dubbio”.

Dettagli e parole, ricordi e date indimenticabili per il giovane medico di Seminara, che ricostruisce quella stagione della sua giovinezza con un malcelato senso di orgoglio, e forse anche del tutto legittimo.

“Ricordo che questo prete comandava tutta l’isola, col pugno di ferro. D’inverno, nell’Isola eravamo sì e no una cinquantina di persone, col medico condotto e, ogni tanto, apriva uno sportello farmaceutico. Spesso, restavo bloccato, a causa di bufere, anche per più di venti giorni sull’isola perché gli aliscafi non attraccavano. Allora, a corto di cibo, mi dilettavo a scassinare tutti i congelatori degli eleganti ristoranti che già erano sorti nell’isola, trovando ogni varietà di pesce congelato. D’estate, tutto esplodeva. L’isola, dominata dallo scenario cupo per i residui di antiche e recenti colate laviche punteggiate qua e là di verde macchia mediterranea, con le spiagge colorate di sabbia nera, tutta si animava riempita, com’era, di migliaia di turisti giunti da ogni parte del mondo”.

-Come passava le sue giornate sull’isola?

“Ogni pomeriggio, verso le 5, salivo sul pendio del monte a mirare il potente aliscafo che, ogni giorno, giungeva da Napoli. Le notti erano dominate dai forti beati del Vulcano. Le prime volte, saltavo dal letto e mi precipitavo sulla piazza, per antiche paure ancestrali, provenendo da terre telluriche. Col tempo, divennero compagni discreti dei miei sogni. Certo, vedere lo spettacolo del fuoco che graffiava il notturno cielo facendolo lacrimare a sangue, non è ricchezza che molti hanno mai potuto godere”.

-D’inverno doveva essere molto triste, ma l’estate?

“D’estate, il medico condotto mi pregava di andarmene al mare. Con i turisti, lui, si faceva ricco. Delle tante cose che mi sono accadute, per adesso, te ne racconto solo due. Un giorno, mi chiamarono d’urgenza in un campo di nudisti, esclusivo e per gente ricca. Intriso di disciplina di scuola comunista, mi ritrovai un po’ perso nel vedere tutte quelle ciolle e caracefali sbattuti per aria. Non perchè fossi sensibile alla bigotteria e alla bacchettoneria. Era solo perchè disprezzavo, a priori, lo spargimento della ricchezza che riusciva a lavare ogni consueta barriera di costumanza degli uomini quando, invece, quegli stessi erano coloro che tenevano ai margini la società povera o fatta di gente che loro ritenevano diversi, e da emarginare per i loro comportamenti sessuali”.

E la seconda cosa?

“La seconda cosa fu quando, al primo buio della notte, un aereo bi-posto, fece un atterraggio di emergenza sulla spiaggia. Mi chiamarono appena coricato. Saltai dal letto e dalla piazza fin alla spiaggia. Fui un fulmine. Arrivai per primo. Aprii gli sportelli e…la mattina dopo, sentii alla radio che a Stromboli vi era stato un atterraggio di emergenza di un aereo da piccolo trasporto Milano-Palermo. Con quattro passeggeri a bordo. Io però ne vidi solo due…Un mistero mai chiarito”.

-Dottore, posso chiederle qual è la maniera migliore per raccontare la sua vita?

“Sono nato tra le mura di una precaria e sperduta spelonca, ultima memoria di ciò che era stato il possente Monastero dei Francescani Conventuali, nelle campagne di Seminara, fondato nel 1317 e dove Consalvo da Cordova, il Gran Capitan, aveva posto il suo quartier generale durante la sanguinosa battaglia del 28 giugno 1495. Tra i 4 pilastri del chiostro rimasti in piedi, dopo il terremoto del 1783, mio Padre, inventandosi un tetto e una casa, incrociò assi di legno ricavati da grossi tronchi di ulivo, coprendoli con tegole vecchie, vecchie quanto lo era la sua Famiglia che, da sempre, tra quelle campagne aveva trovato loco. Luogo distante da Seminara”.

-Come ricorda la sua infanzia?

Sono cresciuto assieme ai cani ed ai figli dei cani che, inselvatichiti, garantivano la sicurezza della mia casupola e dei pochi animali che ci fornivano possibilità di vita. L’asino, per il trasporto delle ulive, della legna e del mosto, le galline per le uova e una capra per il latte. Mio Padre era contadino. Zappava e quando qualche volta mi doveva tener per mano, avverto persin ora quelle sue callosità. Ogni anno, a causa della terra che l’infettava, mio Padre doveva ricoverarsi in ospedale perché il suo tallone minacciava di andare in cancrena”.

-Un padre in guerra, la Guerra di Russia, no deve essere stato facile per sua madre…

Nel periodo in cui mio Padre era assente, mia madre non restava mai da sola, in mezzo a quelle campagne, a badare i due piccoli figli. In effetti, tutto intorno abitavano i fratelli di mio Padre, e sua madre e le sue tre sorelle, pur risiedendo in paese, le stavano sempre accanto come tutto il mondo meraviglioso di contadini, sparsi in quei luoghi. Ma suo fratello Peppino, macellaio, durante le assenze di mio Padre, comunque la immaginava sola, in mezzo ad un bosco, con 2 figli piccoli. Allora, compariva di botto. Bello, deciso, alto, dalla vita complicata fin dall’età di 14 anni quando, nel 1922, sparò a uno che gli aveva offeso il Padre, di nome Santo, mentre lui si trovava nel carcere minorile di Catanzaro, per abigeato di necessità. Guardava mia Madre e, senza preamboli, le porgeva un coltellaccio da macellaio. Mio zio viveva nella fobia di un mondo, comunque, disonesto, ostile, violento, barbaricino…Le diceva in continuazione, “Senti Lina, lo so che qui non ti tocca nessuno, ma se qualcuno, in questi giorni che manca Saverio, ti dovesse guardare male o ti dice qualche parola che non ti garba o ti insulta, anche per sbaglio, i figli, tu gli ficchi, prima questo coltello in pancia e lo giri forte, poi, manda qualcuno a chiamarmi che io arrivo e finisco l’opera”.

-E sua madre, dottore?

“Mia madre, allora, lo guardava estasiata. Viveva per quell’attimo. Attimo in cui il fratello, con quel gesto, le trasmetteva il grande bene che le portava. Prendeva il coltello e, con scatto leonino, se lo nascondeva in mezzo ai seni. Erano memorie di paura ancestrale che lì riaffioravano, era il rito secolare della tribù attorno al focolare e il mito della buia e paurosa notte che porta ogni uomo a tramutarsi in lupo, contro altri lupi”.

-Ricorda tutto con assoluta nitidezza ancora?

Io, in quei momenti, disorientato e, forse un pò intimorito, sbirciavo mio Zio da dietro la gonna di mia Madre, mentre a mio Fratello, che appena incominciava ad articolare parole, diceva: e tu, comportati da uomo! Se vedi qualcuno avvicinarsi, ti butti addosso e te lo mangi a morsi. Ecco, questo fu il mondo della mia infanzia. Meraviglioso, con la polvere che emanava un sapore soave quando, dopo il gran caldo estivo, le prime gocce di una pioggia gentile le facevano sprigionare la linfa profonda della terra di campagna. Vivevo tra gli uliveti giganti, giganti come erano quelli che la mia fantasia faceva stazionare in su le cime di questi bellissimi alberi così amati da Athena, la possente Dea della Sapienza e della strategia militare. Quei sapori, quella polvere, il frinire delle cicale, quelle enormi distese verdi e la dolcezza delle litanie cantate delle arcuate raccoglitrici di olive, hanno invaso, per sempre, la mia anima divenendo sicuro rifugio quando in pace, dai travagli, voglio ritrovare Seminara”.

-Che anni erano dottore quelli?

Erano gli anni in cui frequentavo il ginnasio e il liceo Classico “Pizi” di Palmi, una stagione della mia vita percorsa da una delle faide più sanguinose apparse in Italia”.

-Che anni sono stati?

“Anni tremendi, bui, dove la paura non stava solo tra il buio di ogni notte, ma scandiva le nostre giornate. La furia della vendetta annebbiò ogni miserabile ragione del vivere tra quelle persone”.

-Gente che lei conosceva?

“Molti di loro erano miei compagni di giochi, o gente che era stata morsa dalla tarantola della liturgia di ‘Ndrangheta”.

-Faide e lutti infiniti dottore?

“Ricordo ancora la tristezza infinita delle donne di Seminara fasciate di nero dalla testa ai piedi. Tristissime vestali che alimentavano il focolare domestico nel culto della vendetta”.

-È vero che all’Università lei stava per diventare un pezzo importante dell’eversione di quegli anni?

“Non l’ho mai raccontato prima, ma l’Università è stata l’arena della mia formazione politica ed intellettuale”.

-Non ha risposto alla mia domanda…

È vero, in quegli anni ero diventato un militante estremo: Come allora erano le buone pratiche di vita, guardai in faccia, per la prima volta la morte nelle vere e proprie battaglie politiche che, spesso, scivolavano verso la violenza. Sfuggii ad una bomba e al fuoco perché per fortuna ero altrove”.

-E dopo la laurea?

“La Laurea in Medicina e, poi, la specializzazione in Ostetricia e Ginecologia, mi portò lontano dalla Calabria. A Scandiano, giovanissimo, risultai vincitore di un posto di aiuto di un famosissimo Ginecologo-Oncologo. Che magnifica carriera mi si stava annunciando! Solo che quel modo, nella coscienza, di essere maledettamente altro, mi sconquassò l’anima”.

-Cosa significa?

Quando tornai ad annunciare a mio Padre che sarei andato via per sempre, lui, che non conobbe altro nella sua vita che dolore, mi disse, con gli occhi stanchi: “Fai bene ad andare e poco pensa che ci lascerai da soli qui. E’ giusto così”.

-Quale fu la sua risposta?

“Non ebbi pensieri, più, per la testa, se non quello di raggiungere l’ufficio postale dove dettai un telegramma di rinuncia al posto vinto”.

-Rimase insomma a Seminara?

“Stetti accanto ai miei genitori, finché vita ebbero e questo mi saziò, per sempre”.

-È bellissimo quello che mi dice. E la politica, quanto ha contato invece nella sua vita?

“La politica quando è sostenuta da forti motivazioni ideologiche, è come un tarlo. Non ti abbandona mai. Nel 1993 fui eletto consigliere comunale nel mio Comune, Seminara. Tempi difficilissimi. Iniziammo a mostrare il Paese, ricchissimo di opere d’arte marmoree, pitture del 600 e un artigianato, quello delle ceramica, antichissimo, ma sconosciuto, al mondo come unico modo per uscire dalla nicchia oscura dove le faida ci aveva relegato. Fu un successo strepitoso. Inventai il Corteo Storico di Carlo V che portò a Seminar migliaia di persone. Nel 1994 fui eletto, per la prima volta, Consigliere Provinciale di Reggio Calabria”.

-Leggo che rimase in carica per lungo tempo?

“Ci rimasi per 14 anni. Di questi, ben otto li passai ricoprendo il ruolo di Assessore Provinciale alla Cultura, cosa mai accaduta per un periodo così lungo ad altri”.

-Che stagione fu per la sua vita personale?

Sono stati anni straordinari. Ricordo che riuscimmo a ricostruire l’identità Culturale e Storica della Provincia di Reggio Calabria. I Convegni e le Mostre Nazionale ed Internazionali che organizzai in quel periodo: “Sacre Visioni”, per celebrare il Giubileo del 2000 rimasero nella memoria della gente per lunghi anni. Pensi che il Cardinale che venne ad inaugurare la mostra di Arte Sacra a Palazzo Nervi, chiamandomi da parte mi disse: “Lei lo sa che è l’unico Assessore alla Cultura, in Italia Meridionale, che ha fatto una cosa così bella per celebrare il Giubileo?”, e, poi, ridendo aggiunse:”Ma in che mondo siamo se solo  Comunisti hanno questa sensibilità?”

-E poi ancora?

“Ricordo il Convegno e la Mostra “Petrarca e il Mondo Greco” dove venne stabilito dai maggiori Studiosi al mondo del settore che l’Umanesimo Occidentale camminò con le gambe di Leonzio Pilato, nato nelle campagne di Seminara. Ma ricordo anche sostenni pubblicazioni e tutte le iniziative culturali che esaltavano le tradizioni, la storia e la cultura dei Paesi del Reggino. Finanziammo l’apertura di Musei e il restauro di Opere d’Arte, statue marmoree e manufatti sacri che si stavano perdendo. Contribuimmo al restauro delle Chiese di campagna, memorie storiche dei luoghi”.

-C’è una cosa di cui lei oggi va particolarmente fiero?

E come no? Certo che c’è. Nel 2001, ero allora assessore alla cultura, decisi di andare al cimitero di Melicuccà a trovare il grande poeta calabrese Lorenzo Calogero, e scoprii che la sua tomba era stata sistemata in un sotterraneo del cimitero dove d’inverno colava l’acqua piovana. Roba da terzo mondo. Mi vergognai. Rimasti così rattristato dalla cosa che decisi immediatamente di trasferire il loculo da un’altra parte, e decisi anche di far erigere nel piazzale del cimitero un monumento funerario dove trasferirono poi le sue ossa, perchè ritenevo fondamentale e giusto che ne rimanesse memoria per le generazioni che sarebbero venute dopo di noi. Sa qual è la verità? E che io sono cresciuto leggendo le sue cose e le sue poesie, e ho imparato da lui ad amare la mia terra come forse non ho imparato da nessun altro intellettuale calabrese come lui”.

Ormai è leggenda popolare, ma a Seminara si racconta che lei abbia anche costruito una Chiesa tutta sua?

“Le racconto la vera storia della Chiesa. Conclusa la mia prima esperienza di Assessore, donando un mio terreno, ricevuto in eredità, al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, costruii, dopo 800 anni, la spettacolare, bellissima Chiesa Ortodossa dei Santi Elia e Filarete a Seminara. Motivi Culturali mi portarono a farlo ma, soprattutto, avvertii la necessità di dare un sicuro luogo di culto alla numerosa comunità di immigrati Ortodossi presenti in Calabria. Oggi la Chiesa è una delle cose più belle della mia terra e del mio territorio. Venga a vederla se non l’ha mai vista e troverà un gioiello nato tra le sterpaglie, e di cui io andrò fiero fino all’ultimo giorno della mia vita”.

È vero che lei diventa scrittore dopo la morte di suo Padre?

Si è vero. Fu la morte di mio Padre e il travaglio interiore patito, che mi causò una insonnia feroce e insidiosa, incominciai così a scrivere. Dovevo dare un senso alle mie notti insonni”.

Il suo primo romanzo?

“Il mio primo romanzo “Artemisia Sanchez”, non mi fraintenda la prego ma non posso non dirglielo, ebbe un successo strepitoso. Pensi che Rai Uno ne trasse una Fiction in 4 puntate, vista da 7 milioni di persone alla volta e venduta, da Rai International, in tutto il mondo”.

Posso scrivere che grazie a quel romanzo lei divenne amico di Lucio Dalla

“Le racconto la verità. Per tre giorni in totale segreto, la mia casa a Sant’Antonio, nel borgo antico di Seminara, divenne rifugio di questo magnifico e grandioso artista che era Lucio Dalla. Diventammo amici quasi per caso, sul set della fiction di Rai Uno Artemisia Sanchez. Era il 2006. Lucio Dalla aveva chiesto al regista Ambrogio Lo Giudice che desiderava conoscermi. Non appartenendo ai tanti scrittori della diaspora, partimmo da Seminara con Mimmo Trimboli. Il primo set era nei Castelli Romani. Mi apparve cosa sconcia non assecondare la richiesta. Trovai Lucio Dalla con addosso i costumi di scena e quando gli dissero che ero lì, chiese di sospendere i lavori e mi venne incontro, abbracciandomi, con molta cordialità. Fu molto affettuoso”.

-Che ricordo personale oggi, dodici anni dopo la sua morte lei si porta dentro di Dalla?

“Di un uomo curioso. Dalla era un grande curioso. Ricordo che volle subito sapere come diavolo mi era venuto in testa di scrivere un romanzo così bello quanto audace, e in cui raccontavo l’amore di un Prete per una straordinaria Donna di quel tempo, e dei due che consumavano le loro passioni sessuali dentro una sagrestia”.

-Una storia vera?

Fu la domanda che mi fece Dalla. Ma è una storia vera o è tutta una finzione? Gli mostrai allora il documento originale, correva l’anno 1789, e da cui avevo tratto ispirazione per la scrittura del mio romanzo storico”.

-Nacque così l’amore di Dalla per la Calabria?

“Dalla mi domandò, visto che cercava ispirazione ed ambienti atti a poter comporre la colonna sonora di Artemisia, di vedere i luoghi dove i fatti che io avevo raccontato nel mio romanzo accaddero realmente, e questo era possibile farlo solo venendo in Calabria nelle nostre terre”.

-Il risultato finale fu un successo internazionale…

“In realtà è così che nacque, “Come il vento”, struggente malinconica e dolcissima colonna sonora della fiction, vista poi in tutto il mondo”.

-Un’amicizia la vostra che si è andata consolidando nel tempo?

Con Lucio rimanemmo in grande comunione d’amicizia. Spesso m’invitava, quando andava nella sua casa sull’Etna, e mi regalava bottiglie di vino. Ah, vino di grande pregio, per un povero astemio totale come me. Ricambiavo con magnifiche ceramiche di Seminara. Non potevo passare da Bologna perché ero obbligato ad andare a trovarlo, in quella bellissima casa, un pò su a Piazza Maggiore”.

-L’ultima volta che lo ha visto?

“Lo avevo sentito qualche giorno prima della sua morte, per congratularmi con lui per Sanremo. Ci saremmo visti quell’estate”.

-Il giorno della sua morte, lei ha preso carta e penna e gli ha dedicato uno dei suoi post più belli sul suo profilo facebook?

“L’ho fatto perché lo sentivo di farlo. Perché ricorreva il giorno della sua morte e da allora sono passati tanti anni ormai, e la sua colonna sonora “Come il vento” mi è rimasta dentro radicata e cementata nei ricordi e nel cervello. E l’ho fatto come provocazione a me stesso, in questo Paese come l’Italia, dove cialtroni, donne imbellettate e guerrafondai dimenticano le glorie nazionali. Ma io no. Presto racconterò ancora di lui e del mio racconto a lui. La prossima volta che lei torna a trovarmi le dirò il resto”.

-Posso chiederle perché per il lancio del suo ultimo libro, “Evasioni d’amore”, lei ha scelto uno dei posti più belli di Napoli?

“Volevo solo rendere omaggio a Napoli perché nel primo racconto di “Evasioni d’amore”, scavando tra le carte conservate nell’archivio Storico, ho ricostruito, il tragico amore che legò Giovan Battista Pergolesi e la giovanissima figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli”.

-Artemisia Sanchez fu solo l’inizio della sua nuova avventura letteraria?

“Sì, poi, vennero altri romanzi, e tutti di grande successo. Ma venne anche la nomina a Commissario dell’Asp di Reggio Calabria e nulla fu più come prima”.

-Cosa significa dottore, quando mi dice “Nulla fu più come prima?

Che arrivando lì, inferno in terra, pensai di dover esser quel che sempre fui secondo la scuola di mio padre. Solo che io avevo frequentato un’altra scuola, non quella delle persone a modo. Già, perché in quell’Asp c’erano solo persone a modo… “.

-La prego non mi parli per allusioni scontate, mi dica la verità

“Allora lo scriva per favore. L’Asp di Reggio Calabria poggiava allora la sua azione amministrativa essenzialmente dentro uno stato di illegalità diffusa che si era incancrenita nel corso degli anni passati ed era aggredita da una situazione decennale di precarietà contabile che aveva permesso e permetteva il saccheggio sistematico delle sue finanze”.

-Come si è mosso dopo la sua nomina?

“Avevo iniziato a leggere report giornalistici che parlavano di montagne di debiti. Si raccontava di fatture pagate non si sa per cosa. Si ipotizzava che ce ne fossero state alcune incassate due, forse tre volte. Risultavano non censiti parte degli stessi fornitori. I giornali dicevano che erano stati liquidati valanghe di decreti ingiuntivi di pagamento e ne arrivano ancora in continuazione, senza che l’Asp, mai, si opponesse in giudizio. Io, illuso, avevo pensato di cambiare il mondo e chiedere conto. Ma questa non è una terra in cui si fanno domande. No, niente domande. Se ne fai finisci male, o ti può capitare di finire dentro processi che tu stesso hai denunciato. Finire nelle maglie di una tresca che solo la Buona Magistratura riesce a dipanare. Io alla fine ne sono uscito bene, pulito come ne ero entrato, grazie a dei magistrati che hanno scavato nella mia vita fino in fondo e alla fine mi hanno restituito la credibilità che avevo prima di questa inchiesta. Ma nell’animo ne sono uscito devastato e distrutto. Ma questa è un’altra storia e ha poco a che fare oggi con il mio ultimo libro”. (Pino Nano)

Sanità e Mafia, la BBC e “Le Point” raccontano la storia di Santo Gioffrè

L’ENQUÊTE DU DIMANCHE. Plombé par une dette abyssale et infiltré par la mafia, le système de santé calabrais, au sud de l’Italie, fait fuir les soignants italiens”. (PAR HÉLOÏSE RAMBERT).

Dopo la grande inchiesta della BBC inglese e della più grande rete televisiva Olandese, che vengono in Calabria per intervistarlo, nell’agosto di un anno fa, anno 2023, anche la stampa francese scopre la “Sanità Calabra” e indica Santo Gioffrè come una sorta di “nemico numero pubblico della mafia”. E’ il caso del settimanale “Le Point” (Il punto) che domenica 1 agosto dedica la sua inchiesta di primo piano all’arrivo dei “medici cubani in Calabria” e ai mille risvolti oscuri della sanità calabrese.

Vi ricordo che, nato nel 1972, fondato a Parigi da Olivier Chevrillon, Claude Imbert, Jacques Duquesne, Pierre Billard, Georges Suffert, Henri Trinchet e Philippe Ramond,”Le Point” è oggi il settimanale francese per eccellenza, tra i principali periodici generalisti di area di centro, giornale di grande diffusione in tutta la Francia e di grande peso politico.

Così come aveva già fatto l’inviata speciale della BBC, anche questa che “Le Point” dedica alla Calabria è un’inchiesta dura, documentata, che getta sulla Calabria e sul sistema sanitario calabrese tutto ombre e sospetti di vario genere, ma il tema francamente era allora abbastanza complesso da presupporre anche letture critiche come questa del giornale parigino.

In compenso però, alla fine del suo lungo racconto, la giornalista francese Hèloise Rambert; racconta in maniera puntigliosa la vicenda personale del medico scrittore di Seminara, Santo Gioffrè, che è venuta a trovare a Seminara, e che per i francesi è un “simbolo da imitare” e soprattutto da conoscere e da raccontare. Una sorta di eroe moderno, che una mattina si sveglia e decide di combattere il malaffare da solo e in prima persona rischiando la vita.

Questa è la trascrizione integrale delle cose scritte dal giornale parigino.

Nel febbraio 2015, Santo Gioffrè, medico e scrittore, è stato nominato Commissario Straordinario dell’Agenzia di Reggio Calabria. L’obiettivo era quello di mettere i conti in ordine e di fermare l’emorragia. In seguito ha visto da vicino le malversazioni che stavano minando il sistema sanitario calabrese e il sistema sanitario calabrese e lo sperpero di risorse pubbliche destinate alla cura di 2 milioni di italiani. “Mi sono reso conto che enormi fatture venivano pagate in doppio, in triplo, enormi fatture ai fornitori di servizi”, racconta Santo Gioffrè, che tuttora esercita la professione di ginecologo all’ospedale di Palmi, in Calabria. In particolare, ho bloccato un pagamento di 6 milioni di euro a una casa di riposo, che era già stato effettuato sei anni prima. Il commissario lo vede con i suoi occhi: “la criminalità dei colletti bianchi che si nasconde dietro i grandi gruppi privati dei laboratori di analisi e aziende farmaceutiche”. Produce relazioni che sono state utilizzate, in particolare, per sciogliere l’Azienda sanitaria per associazione mafiosa quattro anni dopo”.

Fatture dunque pagate due volte, e forse non solo questo. Una storia che è diventata quasi una leggenda metropolitana e che non fa che continuare a gettare fango e discredito sulla storia dei calabresi. Per fortuna però c’è ancora qualcuno, come il medico contadino e scrittore di Seminara che onora le migliori tradizioni calabresi. (Pino Nano)

I libri di Santo Gioffrè

-“Il terribile Flagello”. Racconto inedito sul terremoto che sconvolse la Calabria nel 1783;-Gli Spinelli e le Nobili Famiglie di Seminara” Monteleone Editore.(Ricerca approfondita ed appassionante sugli Spinelli, potentissima Famiglia feudataria, di origine spagnola che dominò, dal 1495 al 1806, la Calabria Inferiore e Superiore e su 22 Famiglie Nobili dell’antica Seminara. Nel libro, ormai introvabile, se non nei cataloghi specializzati, Gioffrè pubblica documenti rarissimi che aprono uno squarcio sui metodi di governo delle antiche Famiglie Feudali in Calabria);

-Nel 1999, il Romanzo storico “Artemisia Sanchez”, sempre con Gangemi e, poi, nel 2008 con Mondadori Editore. (Gioffrè diventa noto al grande pubblico nazionale dopo la pubblicazione di questo romanzo, ispirato ad una storia vera sulla Calabria di fine ‘700 e sui Sanchez, nobile Famiglia d’origine Spagnola, che portavano il titolo di Signori di Toledo).

-Nel 2008 Il romanzo storico “Leonzio Pilato“, Rubbettino editore (Gioffrè, tra fantasia e storia, ripercorre la vita di questo straordinario Calabrese, nato nell’antica Piana allora detta di Seminara. Leonzio Pilato, su committenza di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, tradusse, per la prima volta nella storia, dal greco in latino, l’Iliade e l’Odissea, dando, così, origine all’Umanesimo Occidente).

-Nel 2011 -Il Romanzo storico “La Terra Rossa”, Rubbettino Editore. 2011 (Romanzo storico che racconta l’epopea di una comunità della Provincia di Reggio Cal., subito dopo l’Unità d’Italia e fino gli inizi del fascismo, tra soprusi, schiavitù e forme di riscatto, attraverso la vita di un ragazzo, nato mulo, che a 13 anni uccide il padre, signorino e padron).

-Nel 2014 il romanzo storico “Il Gran Capitano e il mistero della Madonna Nera”, Rubbettino editore. (Novità editoriale in Calabria. Dopo 4 ristampe, è uscita la II edizione. Epopea documentata del più grande Generale Spagnolo alla conquista del Regno di Napoli).

-Nel 2018, per i tipi Castelvecchi, Roma, “L’Opera deli Ulivi” ( Sinfonia, tragica, della vita e della morte) dove si raccontano gli scontri politici all’Università di Messina, già infestata da Studenti ‘Ndranghisti, tra gli anni 1975-80 e la genesi ed evoluzione di una terrificante faida familiare in un paesino della Calabria che sconvolse la vita di uno Studente capo di Autonomia Operaia. Il romanzo, apprezzato dalla critica per il metodo innovativo con cui si misura, descrive e racconta la devastazione che causa, sui comportamenti umani, il pensiero di vendetta e ne studia, psicologicamente, i devastanti effetti, è stato presentato in 97 città, in tutt’Italia da Magistrati, Professori Universitari, Giornalisti, Studiosi del fenomeno di ‘Ndrangheta. E’, sicuramente, uno dei pochi romanzi che si cala, profondamente, dentro la realtà di turbolenti anni ’70.

Nel 2021, “Ho vistoLa grande truffa nella sanità Calabrese” Castelvecchi Editore (Gioffrè racconta i 5 mesi passati nell’Asp, senza titubanze o omissioni. Questo gli varrà poi il prestigioso riconoscimento di Medico-Scrittore dell’Anno, nel 2021, con cerimonia a Viareggio, da parte dell’AMSI ( Associazione Medici Scrittori Italiani),e il Premio Aragona 2021-Vincitore del Premio Internazionale Tulliola-Filippelli, per la Legalità, presso il salone di rappresentanza del Senato della Repubblica).

-Ne luglio 2023, è nelle librerie “Fadia”, già vincitore di due prestigiosissimi premi nazionali, il Premio Cronin e il Premio Internazionale per l’Eccellenza nella scrittura, Città di Galateo- Antonio de Ferraris consegnato il 6 ottobre presso la Società Dante Alighieri, a Roma.( E’ la vita di un Professore Universitario che va alla ricerca del suo passato dopo aver visto in faccia la morte).

-Infine nel maggio 2024, “Evasioni d’Amore”, sempre per la Castelvecchi Editore, libro presentato in anteprima nazionale venerdì scorso a Napoli e indicato dalla critica come una chicca del panorama letterario italiano di questi ultimi anni(p.n.)

 Il giorno in cui incontrai il Patriarca Bartolomeo I

di Santo Gioffrè

Sono passati 22 anni da quella mattina quando Sua Santità, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, posò la prima pietra di quella che poi sarebbe divenuta la Chiesa Greco-Ortodossa dei Santi Elia e Filarete, a Seminara.

Erano trascorsi 800 anni dall’ultima volta che era stata costruita una chiesa di rito greco, prima che gli Angioni bandissero la liturgia ortodossa dalla Calabria.

Bartolomeo I, che porta tra i suoi titoli anche quello di Despota di Costantinopoli, cioè, ultimo dei successori non solo della cattedra Patriarcale ma, anche, del Trono degli Imperatori di Bisanzio, mi guardò con una stizza d’incredulità quando m’indicarono come colui che aveva voluto donare il terreno.

Chiese di potermi parlare in privato. Il Patriarca si esprimeva, perfettamente, l’italiano.  Ci appartammo sotto l’albero spoglio di un vecchissimo fico bianco, nato insieme a mio Padre, perché era stato piantato 1921.

Mi chiese se io fossi di religione ortodossa e il motivo della donazione al Patriarcato.

Risposi, con posato ritegno, che io non sono credente e che la mia decisione, in una terra dove nessuno regala niente a nessuno, nasceva, innanzi tutto, per motivi culturali e, poi, perché il mondo dell’emigrazione ortodossa, allora molto numeroso a Seminara e nei dintorni, potesse contare su un luogo, sicuro, di culto.

Sorrise il Patriarca quando mi sentì aggiungere: -Santità, il vero motivo, se vogliamo, è la speranza di veder revocare la scomunica, per eresia, pronunciata nel giugno del 1342, a Santa Sophia, a Costantinopoli, contro il mio antico compaesano, il Teologo- Astronomo e Letterato Barlaam-

Il Patriarca, uomo di raffinatissima cultura e di spiccata intelligenza, mi guardò e, sorridendo  rispose: -Dottore, per togliere la scomunica a Barlaam, la Chiesa Ortodossa dovrebbe indire sette Concili…Lasciamo le cose così e ricordiamo Barlaam, nella Sua città natale, come grande Intellettuale, letterato e umanista-.

Con Sua Santità, il Patriarca, restammo, sempre, in intima amicizia.

Fino al primo decennio del 2000, ogni anno, m’invitava a Istambul, al Faner, nella Sede Patriarcale.

Ad aprile, quando ricorreva la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati, nel 1204, il Patriarca mi faceva partecipare alle cerimonie e, poi, spesso, andavamo nei luoghi che ricordavano, ancora, Bisanzio: Cappadocia e nelle isole.

Ora, è immenso il piacere nell’incontrarlo ogni volta che viene in Italia., ben 2 volte. L’ultima volta, appena un mese fa, ci siamo incontrati a Roma.

Mi aveva preavvertito, chiedendomi di raggiungerlo il primo ottobre. Il giorno prima si era incontrati con  Papa Francesco.

Quel giorno, il primo ottobre, tenne una solenne Liturgia nella Chiesa Ortodossa di San Teodoro al Palatino. 

Entrato in chiesa, vestito con i pagamenti Patriarcali, solenne ed ieratico, tra Cardinali ed Ambasciatori, si staccò dalla folla che lo circondava e mi venne incontro.

Ci scambiammo i consueti abbracci e lo baciai.

Lui, con la sua bella voce, gravata dagli anni, cavernosa e imponente, in un Italiano  perfetto, mi disse: “Lei, Dottore, voglio che sieda alla mia sinistra per tutto il tempo della Liturgia. Dopo, sarà mio esclusivo ospite a pranzo, perché dobbiamo riprendere le discussioni sulla Storia antica delle nostra sacre memorie.

Così fu e, mentre una enorme folla enorme pativa per poterlo, solo, salutarlo, Lui volle che stessimo tutto il pomeriggio assieme, a parlare e a sapere di me e delle mie ultime cose. Finché non dovette andare per imbarcarsi per Costantinopoli. Mi ha invitato a Istambul, nel mese di maggio 2024.

Bartolomeo è parte di quegli Uomini che fanno grande la Religione perché sanno parlare al cuore degli Uomini.

Lui, molte volte, guardandomi in silenzio, ha rubato il senso profondo della mia anima, dei miei pensieri, del mio modo di essere, fuori da ogni canone statutario.

Mi sa ateo, ma sempre mi ha detto che il credere non appartiene a nessuna manifestazione ostentativa delle persone e che persino l’ateismo sa essere, nell’intimità, utile se si sanno amare gli Esseri Umani.

Con Sua Santità, Bartolomeo I, la nostra storia di adesione Intellettuale, Storica e Religiosa non finirà mai.

Lui sa bene quali sacrifici e problemi, anche violenti, ho dovuto affrontare per costruire e difendere la mia e la sua Chiesa.

Forse, è questa peculiarità  che distacca il Supremo Religioso dal Soglio più alto e lo avvicina agli uomini semplici, perché la bellezza dei segreti dei cuori è solo dei Grandi Uomini.

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