“Ho paura anch’io, ma resto qui a Gerusalemme”
Pino Nano
“E’ qui, nel luogo in cui Dio ha scelto di irrompere nella storia dell’uomo che sorge la nostra casa Kerigma. Accogliere, ascoltare attendere: sono i tre verbi legati a questa esperienza che avvicina tutti noi alla città “eletta” dal Signore. Un detto rabbinico racconta che quando il discepolo si presentò al maestro, l’ultimo gli fece tre domande: «Se non tu chi? Se non adesso quando? Se lo fai solo per te che persona sei?»
Per capire il clima di guerra che si respira in queste ore a Gerusalemme, e in Israele, cerchiamo un sacerdote che ha fatto di Gerusalemme la sua scelta di vita. È un giovane sacerdote che ha scelto in queste ore di restare a Gerusalemme nonostante la paura della guerra, e che ha rinunciato a tutto quello che aveva in Italia per vivere la sua missione di povertà in una casa di accoglienza a ridosso della città Santa. Lui si chiama Valerio Chiovaro, e la sua è la storia di un missionario moderno che per stare bene con sé stesso ha lasciato la sua diocesi, una delle parrocchie più ricche di Reggio Calabria, per “seguire la chiamata del Signore”.
In realtà la storia personale di don Valerio sembra davvero un pezzo del Vangelo di Gesù, lui apostolo tra gli apostoli, lui missionario ai margini di un deserto pieno di pericoli, in una città dove odio amore disprezzo e violenza sono di casa ogni giorno e sono le due facce della stessa medaglia, lui figlio di una città lontana da qui oltre 3500 chilometri via terra, nato e cresciuto a Reggio Calabria, ma soprattutto storico sacerdote della chiesa della Cattolica dei Greci (o Santa Maria della Cattolica dei Greci), l’istituzione cristiana più antica nella città dello Stretto. Una mattina di tre anni fa questo giovane sacerdote reggino si sveglia e si rende conto che la sua vita deve proseguire, perché quello che ha intorno forse non gli basta più, perchè la sua storica parrocchia reggina gli ha forse dato tutto quello che lui avrebbe potuto sperare di avere fino ad ora, ma lui ora cerca oltre.
Una sfida intima, che non si ferma, contro sé stesso, contro il suo mondo, e da rigoroso intellettuale della Chiesa di Francesco sa di poter ancora osare, e anche molto. Ecco allora che don Valerio ritrova il coraggio di sognare. Prende carta e penna e chiede ai suoi superiori di poter andare in Terra Santa per fare il missionario. Molti proveranno a fermarlo, ma l’uomo è un romantico, un visionario, un filosofo, folle e ribelle, uno straordinario poeta dei giorni nostri.
“Valerio è un sacerdote di grande carisma- ricorda l’Arcivescovo Emerito di Cosenza mons. Salvatore Nunnari che lo segue da quando Valerio era ancora un giovane seminarista-. e quello che ha fatto è un segnale di una forza dirompente per tutti noi, sacerdoti e fratelli come lui. Ha lasciato la comodità della sua bella chiesa reggina per un’avventura del tutto nuova, beato lui che ha avuto il coraggio di osare. Ad un sacerdote come lui, gli va augurato tutto il bene possibile, perché grazie a questi preti la Chiesa è ancora forte presente e protagonista nel mondo”.
Don Valerio, la chiamo per capire come vive lei, in questi ultimi mesi soprattutto, il clima di tensione che pesa su Israele?
Sono giorni in cui, al di là di qualche notte, si simula una vita il più routinaria possibile. Questo per non cedere all’altalena tra “un prima” e “un dopo”. E sì! Può essere una tentazione: quella di interpretare ogni cosa come se fosse il “dopo” di un’altra e il “prima” di un’altra ancora. È una trappola che porta al rischio di non avere una visione completa, di vivere una vita a scatti, di non maturare una lettura complessiva (quindi complessa), perchè ci si ferma alle situazioni puntuali. Oltre questo c’è grande apprensione.
È vero che la città è dominata dalla paura di nuovi attacchi?
Purtroppo, penso sia l’espressione giusta, non tanto per ciò che riguarda “nuove rappresaglie”. Ma ancor più per “il dominio della paura”. Sembra che la paura domini un po’ tutti e che questa stessa paura possa essere generata, o usata per motivare strategie geopolitiche che, pur giocandosi su questa scacchiera, hanno giocatori piuttosto fuori da questo quadrante. È un po’ come nel gioco degli scacchi: la regina mangia la torre, il cavallo salta l’alfiere. Ciascuno secondo le regole e i ruoli. Ma i giocatori, quelli che muovono le pedine, sono fuori… Loro possono perdere la partita, ma possono anche non avere paura. Chi sta dentro il quadrante, la partita l’ha già persa comunque. Bianchi o neri che siano, sono loro a cadere, ad essere “mangiati”. Loro non possono non avere paura. Chi rimane sul campo sono la torre, l’alfiere, il cavallo, il pedone…
E dunque?
Allora, più che la paura per nuovi attacchi, c’è la paura…. La paura e basta, la paura che qui è il respiro più comune. E c’è una paura per quello che può succedere, ma anche una paura perché tutto questo possa non finire mai… è una miscela tra paura e disperazione. Tutto ciò è il vero pericolo, perché la paura a volte può spingere alla rabbia, a volte giustifica risoluzioni drastiche, ma sempre (sempre, sempre, sempre) fa fare le scelte sbagliate. Poi c’è chi questa paura la maschera in mascelle forti e squadrate, in apparati militari di avanguardia, in attacchi di diverso genere… ma è solo paura. La paura più tremenda: quella di essere sterminati, di poter sparire come popolo.
Don Valerio, nonostante questo lei rimane a Gerusalemme?
Dinanzi a questo “respiro”, non ci resta che essere presenti. Fare un po’ come i purificatori di aria, i filtri: respirare l’aria, trattenere la paura, restituire un respiro pulito. Ma, se vogliamo capire questi popoli, dobbiamo respirarne l’aria. Con umiltà. Per questo, qui, mi sforzo di non fare letture ideologiche, filosofiche, da dibattito. Ho dinanzi la vita di tanti giovani delusi, feriti, arrabbiati… impauriti. Per questi nutro grande rispetto.
Le ripeto la domanda, perché nonostante il rischio di una guerra lei è rimasto a Gerusalemme?
Perché i cristiani possono fare la differenza. A Gerusalemme è importante la presenza, anche la presenza di noi “stranieri” cristiani. Siamo un po’ uno scandalo: mentre tutti vorrebbero andare via, noi respiriamo, filtriamo questa aria. Tanto più efficacemente, quanto più ci sentiamo impotenti. In fondo, Gerusalemme è la terra dell’Amore Impotente, Crocefisso. Di una potenza -per noi cristiani- tutt’altro che militare. È luogo della potenza dell’Amore Impotente. In altre parole, per i cristiani “che vengono da fuori”, è la scuola della responsabilità di incarnare un amore che può l’impossibile, perché per Amore diventa impotente.
Gerusalemme intesa come scelta di vita?
Chiunque venga a Gerusalemme, anche per una volta sola, in qualche misura ci rimane per sempre. Anche se torna a casa. Gerusalemme, anche se si lascia alle spalle, sta sempre davanti. Non si dimentica: “se mi dimentico di te, la mia lingua mi si attacchi al palato”, recita un salmo.
Sono tornato per dare, specialmente ai sacerdoti, la possibilità di riposarsi e di ripartire da qui pronti ad annunciare, nella contraddizione del mondo, la contraddizione della Resurrezione. È il progetto di casa Kerigma. Sono tornato anche perché stare qua è rendere permanente, in coloro che ci sono passati, il ricordo di Gerusalemme, il memoriale di Gerusalemme. Affinché ciò che qui è avvenuto due mila anni fa, possa avvenire ancora oggi, nella vita di ciascuno. La vita è il luogo della Incarnazione. Allora, coloro che sono passati, che sono tornati a casa, ricordandomi qui, per qualche verso, ritornano qui con il pensiero, la memoria, la nostalgia. Vivono il memoriale di questo luogo. In fondo Gerusalemme è l’incontro con il Risorto. Qui “ci si è” e “ci si sta”, anche se “non ci si è” e se “non ci si sta”. Ma qui “non ci si è e non ci si sta”, se non si vive questa terra nelle sue contraddizioni di bene e di male, nel suo popolo, nel suo essere segno sintetico, denso e simbolico del mondo intero.
Una missione senza fine, Padre?
La mia vita è abbastanza in movimento, torno spesso in Italia e giro un po’ dove c’è bisogno. Ad esempio, nelle prossime settimane, sarò tra Inghilterra, Italia e Stati Uniti. Ma sempre come prete “in prestito” al Patriarcato di Gerusalemme. Una sorta di missione nella missione. Di preparazione alla missione… La vita è così, una missione che prepara a missioni sempre più complesse.
Lei ritiene che arriveranno altri giorni bui?
Non lo so, dipende tutto da chi sta fuori dalla scacchiera. Purtroppo, a furia di “giocare” a chi mena il pugno più forte, ci si può fare veramente male.
In che modo gli israeliani guardano al nostro paese?
Oggi, quando si dice israeliani, si dice di una realtà molto eterogenea. In generale, siamo considerati un popolo accogliente e caldo. Gli israeliani amano la nostra cultura, la nostra Nazione, i nostri cibi… Ma ciò che pensano del nostro atteggiamento politico non lo saprei dire. Il sentire comune mi pare che sia: “o con noi o contro di noi”. Ma questo è proprio in ogni polarizzazione ed è ben lontano dal “chi non è contro di noi è per noi”.
Lei crede che l’Italia stia facendo bene il suo ruolo di forza mediatrice del conflitto?
Non saprei, l’impressione che si ha da qui è che tutti capiscano quale sia il problema, forse anche la soluzione, ma nessuno voglia esporsi troppo… e forse questa è una possibile definizione di “democrazia occidentale”.
La gente comune giustificherebbe un attacco di Israele come risposta ai droni lanciato nei giorni scorsi?
Il problema è capire quale sia la concatenazione degli eventi. La gente comune qui è comunemente stufa di quanto va avvenendo, vorrebbe vivere tranquillamente e riabituarsi alla vita normale, perché non ci si può abituare veramente a questa vita. La gente comune qui non fa riflessioni da salotto televisivo. I giovani sono in guerra e molti adulti anche. Tutti hanno avuto perdite, chi tra gli uccisi, chi tra gli ostaggi, chi in questa “cosa” che chiamano guerra. Si tratta di persone provate e spesso strattonate. Così si polarizzano gli eccessi e gli eccessi creano tensioni. In altri termini, c’è chi è a favore, c’è chi è contrario. Ma in ogni caso, tra gli uni e gli altri, sembra che la stanchezza della paura sia l’unico comune denominatore.
In conclusione… una parola di speranza
Una parola di speranza, non può che essere una presenza di speranza. Qui la Parola si fa Carne e mi sembra di poter ravvedere questa carne nella variegata ricchezza della Chiesa locale. Certamente, l’attenzione del Santo Padre qui è molto consolante. Ci si sente, per tanto, Chiesa universale. Ma anche la parola sapiente, prudente e decisa del Patriarca, la sua prossimità, il suo stare in mezzo alla sua gente, quanto fa bene! Come anche la presenza di tantissimi religiose e religiosi. E poi i fedeli, sia di lingua araba che di espressione ebraica, è una chiesa molto particolare… Una chiesa veramente pentecostale. Sofferente, perché i suoi figli muoiono (da entrambi i lati di questa piccola scacchiera e spesso come pedoni). Sofferente e consolatrice. Ecco, in questo sparuto, impotente, piccolo gregge multilinguistico e multiculturale, mi sembra di poter vedere un segno di speranza. Un gregge che, con il suo pastore, e nonostante tutto, dà segno di prossimità. E un gregge che conosce il Pastore, e il pastore è tale, perché conosce l’Agnello. Si è un po’ come l’immagine della Apocalisse: grandi sconvolgimenti, lotte e tragedie… ma Gerusalemme rimane sempre la città dalle porte aperte, la dimora dell’Agnello.