Addio a Giancarlo Geri
di Pino Nano
Aveva appena compiuto i suoi primi 90 anni ed aveva vissuto per tutta la vita con due grandi passioni in corpo, la fotografia e la caccia. Il suo nome in RAI era quasi una leggenda, nonostante avesse un carattere difficile, scontroso, a tratti irascibile, ma come tutti i toscani di grande qualità pensava di essere quasi sempre nel giusto, e forse aveva anche ragione di crederlo.
Era nato in una contrada poverissima della Toscana che si chiama Ponte Petri, nel comune di San Marcello Piteglio, al confine tra la Valle del Reno e quella del Torrente Maresca, in una delle zone più periferiche della provincia di Pistoia. Era il 6 giugno del 1934, e all’età di diciotto anni Giancarlo incomincia a collaborare con RAI Toscana per i primi servizi a cachet che gli venivano richiesti dalla zona di Pistoia. Aveva una sua macchina da presa, ma la sua grande vera dote era la passione per i chiaroscuri e per i dettagli, e questo lo fece immediatamente entrare nel cuore dei vertici RAI del tempo. Che lo consideravano il migliore sulla piazza. Un numero uno in senso assoluto. Prima veniva lui, Giancarlo Geri. Poi, dopo di lui, c’era suo cognato, Franco Barneschi, altra leggenda vivente dei primi TG della RAI, erano infatti sue le immagini più iconiche e anche più tragiche della famosa alluvione di Firenze.
Un giorno Giancarlo si presenta in redazione a Firenze e chiede al direttore di turno se poteva sperare di poter essere assunto in maniera definitiva, e ne ottiene una risposta immediata: “Se vuoi un posto a tempo indeterminato posso mandarti immediatamente per tre-quattro mesi in Calabria, hanno bisogno di un bravo operatore di ripresa, poi magari torni a casa”. Così fu, almeno per la parte iniziale.
Lo mandarono a Cosenza alla Sede RAI diretta allora da Enrico Mascilli Migliorini, e il suo rapporto con la Calabria durò poi nei fatti quasi 50 anni. Tanti ne ha passati Giancarlo Geri tra Cosenza, prima casa in Via Sicilia, Castrolibero il suo secondo trasloco, e infine a Mendicino “nella casa accanto a quella di un grande cronista di quegli anni- mi dice Carla sua moglie- e che era Enzo Arcuri. 50 anni che sono volati via- dice ancora Carla Geri- e che sono stati gli anni più belli della nostra vita. Di anni insieme io e Giancarlo ne abbiamo vissuti almeno 70, ci eravamo conosciuti da ragazzi alla scuola media, e da allora non ci siamo mai più persi di vista. Il nostro è stato un grande amore e la Calabria, lontani sia io che lui dalla Toscana, non ha fatto altro che cementare il nostro legame e il nostro sentimento. Pensa che fino all’ultimo Giancarlo parlava della Calabria come se fosse la sua terra natale, ma in realtà lui la Calabria aveva avuto il tempo e il modo di viverla per intero, di attraversarla da cima a fondo, di raccontarla al mondo intero con la sua famosa prima Arriflex, che era una delle cineprese più sofisticate ma anche più fedeli di quegli anni”.
Giancarlo Geri e la Calabria, un binomio indissolubile e inscindibile nel tempo, perché per almeno 40 anni Giancarlo ha firmato dalla Calabria le immagini e le inchieste più disparate della nostra storia contemporanea. Il suo primo servizio speciale lo fece con un altro grande giornalista del tempo, Ninì Talamo, anche lui appena arrivato da Napoli a Cosenza insieme ad Emanuele Giacoia. Era un documentario dedicato alla caccia del pesce spada, un film vero e proprio che per la bellezza delle immagini e la suggestione dei tagli di luce fece poi il giro del mondo. Ma lo stesso è stato con uno dei programmi cult della RAI calabrese, “Nascita di una Regione”, scritto e firmato dallo storico Pietro De Leo, e di cui Giancarlo Geri è stato uno dei grandi cineasti del tempo.
“Ho di lui- mi dice Ninì Talamo al telefono dalla sua casa di Napoli- un ricordo molto speciale perché è vero che Giancarlo girò il suo primo servizio televisivo con me appena arrivato lui da Firenze, ma è anche vero che girò con me anche l’ultimo mio reportage filmato dalla Calabria. Quando una settimana prima di lasciare la Calabria mi avvertirono che sarei stato trasferito a Napoli, decisi di salutare i calabresi dedicando loro uno speciale tv sulla Maddonna di Polsi, dove io ero già stato diverse volte e dove mi faceva immenso piacere tornarci. E per quel mio ultimo reportage chiesi proprio a Giancarlo Geri, che era arrivato da noi da poco, di venire con me a Polsi. Fu un viaggi estenuante, allora per arrivare a Locri da Cosenza servivano almeno cinque-sei ore e una volta arrivati a Locri dovevano salire per la montagna fino al santuario. Altre due ore di marcia lungo il tracciato della fiumara. Noi avevano per fortuna una jeep che ci portava fin su, ma lungo il sentiero ricordo una marea di gente che saliva al Santuario a piedi, molti erano anche scalzi. E una volta arrivati lassù fu per noi una immersione totale in una atmosfera che oggi sembra irreale e impossibile da rivivere. C’era gente che arrivata in cima alla montagna arrivava poi al Santuario in ginocchio, strofinando le ginocchia per terra, in segno di devozione alla Madonna. Fuori dalla Chiesa invece cera gente che ballava la tarantella, molti di quelli che ballavano si vedeva da lontano che era gente di malaffare, forse uomini di ndrangheta, ma per noi era importante registrare e filmare quello che accadeva lassù. Giancarlo aveva qualche timore iniziale, poi lo convinsi a tuffarsi nel cuore di quel gruppo di ballerini e di girare attorno a loro con la sua macchina da presa. Non fummo bene accetti, ma non fumo neanche trattati male. Ci sopportarono, qualcuno inveì contro di noi frasi ingiuriose, Giancarlo comincio ad avere qualche paura di troppo, e ad un certo punto lasciò il gruppo e insieme tornammo al santuario. Due giorni dopo io avrei lasciato la Calabria definitivamente per sempre, ma ero felice di essere tornato a salutare una volta per tutte la Madonna della Montagna, a cui intere popolazioni della locride sapevo fossero visceralmente legate. E’ inutile dirti che le immagini di Giancarlo Geri mi aiutarono a realizzare uno dei reportage forse più commoventi e più forti dela mia esperienza calabrese. Mi sembrava giusto ricordarlo ora che lui non c’è più”.
Io invece ricordo Giancarlo Geri con grande affetto e immensa ammirazione. Avevo avuto la fortuna di lavorare con lui, per una lunga trasferta tra i Calabresi d’America, tra Toronto, New York, Boston, e Chicago e da quel lungo viaggio sentimentale nel mondo dell’emigrazione calabrese ne ero tornato affascinato per quello che alla fine ero riuscito a realizzare per la RAI, ma i realtà il merito di quella trasferta portava anche la sua firma. O Meglio, portava soprattutto la sua firma, perché senza la suggestione di quelle sue immagini dai grattacieli di Manhattan io non sarei mai riuscito a costruire per la televisione un prodotto di grande successo come poi in realtà fu “Calabriamerica”.
Con noi in America c’era anche un giovanissimo Enzo Biafora, per tutti noi era semplicemente Bill, che curava l’audio ed era l’assistente di Giancarlo, vittima come me, e insieme a me anche lui, delle mille intemperanze che Giancarlo si concedeva almeno un paio di volte al giorno. Ma era normale routine per un principe della fotografia che incominciava a lavorare alle otto del mattino e che a volte rimetteva la sua macchina da presa nella custodia poco dopo la mezzanotte. Ritmi infernali, ma con lui bastava aspettare che gli passasse la luna e poi si ricominciava come se nulla fosse mai accaduto.
Quando non aveva da lavorare Giancarlo correva in Sila, tra Camigliatello e Lorica e andava a caccia, e la caccia era diventata per lui salutare e salvifica, “forse- dice sua moglie Carla, perché gli dava l’illusione di essere ancora tra i boschi della sua Toscana. E in 50 anni di vita calabrese dalla nostra casa sono passati anche quattro bellissimi cani, due per volta, due bracchi e un setter da caccia, Diana e Full, nome uguale e unico per tutti e due, quasi Giancarlo volesse in questo modo immaginare che i primi due non se ne erano mai andati via da casa”.
Un compagno di lavoro straordinario, come tantissimi altri incontrati dopo di lui sulla strada della professione. Ho chiesto a sua moglie Carla dove lo avesse sepolto e mi ha risposto così: “Ho fatto come lui voleva. È stato cremato e poi io l’ho portato nella sua vecchia casa toscana, e ora lui è qui nella nostra stanza da letto. È bellissimo averlo qui, perché in questo modo gli parlo ogni giorno e ogni qualvolta devo chiedergli un consiglio mi siedo davanti alla sua urna e gli chiedo quello che gli devo chiedere. In realtà per me Giancarlo non è mai andato via da qui”. (Pino Nano)