“Un ponte sull’abisso”, una donna calabrese si ribella alla ‘ndrangheta.
Pino Nano
Il lancio ufficiale del romanzo di esordio del giornalista calabrese Paolo Toscano (Albatros Edizioni) si è tenuto al Circolo del Tennis di Reggio Calabria, per il “Rhegium Julii”, presenti il Presidente Pino Bova, il nuovo Procuratore della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri, e la scrittrice Benedetta Borrata.
Questo di Paolo Toscano è un libro forte, dai toni accesi, scritto da uno dei cronisti calabresi più navigati di questo mondo del giornalismo di cronaca, un racconto e un dossier insieme, il diario capillare della mafia di un tempo, e dei vecchi boss a cui nulla era impossibile o negato, e nello stesso tempo un manifesto coraggiosissimo contro la mafia e contro le sue regole.
“Sono un giornalista che è nato, è cresciuto e ha sempre lavorato in una terra complicata come la Calabria. Ho alle spalle una carriera ultratrentennale di cronista al quotidiano Gazzetta del Sud dove ero capo servizio. Mi sono occupato in prevalenza di nera e giudiziaria. Posso tranquillamente affermare che nella vita professionale le vicende di ’ndrangheta sono state il mio pane quotidiano. In età matura, rispolverando una passione giovanile, ho pensato allora di scrivere un romanzo ispirato dalle conoscenze maturate nel corso della lunga esperienza in campo giornalistico. Così è nata una storia ambientata negli anni Novanta nell’area pre-aspromontana, in un paesino soffocato dall’opprimente presenza di una potente cosca. A darmi la spinta, a motivarmi in un lavoro piuttosto impegnativo ha contribuito la voglia di offrire il mio contributo a una causa importante: far crescere, soprattutto nella componente scettica della società calabrese, la consapevolezza della gravità della situazione e, allo stesso tempo, alimentare la determinazione necessaria a liberarsi dal giogo mafioso”.
Questo romanzo -riconoscono i suoi ospiti alla manifestazione del Rhegium Julii– è un autentico atto letterario di condanna, senza rete e senza riserve, del fascino diabolico che vecchi e nuovi boss esercitano, molto spesso, sulle comunità nel loro complesso di cui sono padroni. Del resto -scrive nella sua prefazione Barbara Alberti– “Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno”.
Dopo averlo letto, ho chiamato Paolo Toscano al telefono e gli ho suggerito di farne un film, perché dentro il suo romanzo c’è la trama affascinante e inquietante di una fiction di grande interesse nazionale e di sicuro successo mediatico.
Quella che il vecchio cronista di Gazzetta del Sud ci racconta è la storia di Maria, una studentessa universitaria che vive un’esistenza apparentemente tranquilla. Studia Archeologia, e sogna di lavorare in un Museo. Ma non è una ragazza come tante altre, essendo lei nata e cresciuta in una famiglia di ’ndrangheta.
È la storia di una giovane donna calabrese che pur essendo parte di una famiglia di Ndrangheta, “i Serrano di Montebruno in contrada Petrara”, non riesce ad accettare passivamente le regole che governano il suo mondo, e nel momento più complicato della sua giovane esistenza -racconta il romanzo- “Maria si rende conto di essere giunta al momento di dover rompere una volta per sempre le catene che la tengono prigioniera sin dalla nascita”.
Accade l’imponderabile. Maria trova la forza per ribellarsi alle assurde regole che governano tutto il suo mondo, sotto questa cappa opprimente dell’omertà. Sono le stesse regole che condizionano e orientano qualsiasi iniziativa all’interno di casa Serrano. Così, nel momento in cui sceglie di rompere gli indugi, imbocca il difficile percorso del cambiamento radicale.
Ci sono pagine di questo libro, così piene di sentimento e di poesia, ma anche di dialoghi in strettissimo dialetto calabrese, in cui Paolo Toscano sembra voler rinnegare, almeno in questo caso, la sua storia di cronista di razza, fedele solo alla cronaca dei fatti raccontati, e diventa suo malgrado romanziere attentissimo di questo mondo di Ndrangheta così ancora pieno di violenza e di sopraffazioni.
“Maria non vuole fare la fine di sua madre e di sua nonna. La ripugna l’idea di seguire le orme di due donne che sempre hanno fatto finta di non capire continuando a crogiolandosi all’ombra dei privilegi goduti in quanto figlia e moglie di un potente capobastone. Si arriva così alla chiusura del cerchio”.
Non un libro sulla ndrangheta, ma un libro di 456 pagine contro la ndrangheta. Dentro di lei, già da bambina, aveva cominciato a insinuarsi la convinzione che non avrebbe mai accettato di far parte “dell’esercito delle donne di mafia comandato a bacchetta, per consolidate tradizioni familiari, da un padre, un marito o un fratello ndranghetista”. Così come- lo spiega straordinariamente bene l’autore del libro- lei non avrebbe mai accettato di vedersi assegnato, dopo il classico matrimonio combinato, il compito di mettere al mondo dei figli da indottrinare esercitando un ruolo di garante nel procedimento di trasmissione del codice culturale mafioso.
Il romanzo non cade mai di tono, ogni pagina è piena di elementi nuovi e di suggestioni che farebbero gola ad un regista di una delle tante serie televisive oggi in giro per la rete, ma c’è una parte del tutto che vale quanto tutto il romanzo stesso, ed è la narrazione del “movente” che spinge Maria al tradimento verso la sua famiglia.
Maria è testimone oculare di un avvenimento sconvolgente. Assiste, senza essere vista da nessuno, in presa diretta, all’omicidio della sua migliore amica e del fidanzato di lei, e questo fa scattare la molla definitiva del rifiuto della famiglia in cui è nata.
Dice Paolo Toscano:” Essere stata testimone di un crimine orrendo spazza ogni tipo di resistenza e di riserva. Tutto questo dolore le fa capire come, ormai, sia giunto il momento di gettare un ponte sull’abisso che, prima o poi avrebbe inghiottito anche la sua vita, senza concederle altre possibilità per rimediare”.
E qui, il grande cronista offre alla protagonista del suo romanzo la chiave ideale per uscirne alla grande, ed è la costruzione letteraria di una bellissima amicizia tra Maria e un giovane ufficiale dei Carabinieri, che l’aiuta e la sostiene ad andare avanti senza tentennamenti. “Cosa che Maria fa -scrive Paolo Toscano– senza nessuna mediazione con sé stessa, denunciando con forza il marciume di un mondo che ormai non le appartiene più, e nel momento della prova finale lei alza l’indice accusatore e lo punta senza pietà sui componenti della sua famiglia.
Il romanzo è attualissimo, fotografa la realtà spettrale e più autentica della ’ndrangheta di sempre, e racconta in maniera magistrale il passaggio di testimone da padre in figlio, confermando come nella mafia calabrese la famiglia sia ancora oggi una struttura granitica e “clanica”.
Il capobastone protagonista di “Un ponte sull’abisso”, don Ciccio Serrano -spiega l’autore- esercita una forma di potere assoluto nel territorio dove è sempre vissuto: “Per lui, illuminato dal sole del potere, tutto scivola serenamente fino a quando non si trova ad affrontare qualcosa di sconvolgente. Finalmente viene tradito dall’interno e, ironia della sorte, in un mondo dominato dagli uomini, lo sconvolgimento di equilibri secolari è prodotto da una delle sue donne di casa. L’oltraggio per il boss è insopportabile. L’iniziativa della nipote gli fa perdere l’onore mafioso”.
Vi dicevo prima, ci sono tutti gli ingredienti per una fiction di successo in questa storia, anche perché la scelta di Maria contiene un messaggio forte di speranza. “Fa comprendere come in qualsiasi ambiente, anche nel più ottuso e difficile perché impregnato della subcultura mafiosa può crescere una persona capace di affrancarsi, di prendere le distanze e denunciare. Il mio romanzo, inoltre, punta a dimostrare come personaggi considerati, a torto, da alcune fette di piccole e grandi comunità, alla stregua di invincibili “divinità” siano in realtà persone vulnerabili e per niente invincibili”.
La parte finale è un tazebao vero e proprio, una narrazione a dir poco avvolgente di un mondo che solo i grandi cronisti come Paolo Toscano conoscono meglio di noi, e da cui vengono fuori fragilità, difetti e paure di personaggi come il capobastone che non trova il coraggio di porre fine alla sua esistenza e chiude, sconfitto e senza più potere, i suoi giorni terreni dietro le sbarre.” Le sue notti in carcere erano state segnate dal tormento. Dalla prima fino all’ultima. Il congedo dalle scene della vita era avvenuto in sordina. Don Ciccio non se n’era andato da protagonista ma come l’ultima delle comparse. Tutto si era materializzato nel rispetto della profezia del nonno. Ce l’aveva scritto nel destino. E a nessuno era consentito di cambiare il destino. Lui era un boss e come tale non poteva morire nel suo letto”.
Un libro da leggere, un libro da premiare, un libro da far conoscere, un libro -suggerirei- da adottare nelle scuole. (Pino Nano)